Nella pancia della “Colomba Bianca”

Foto: Thomas Hämén

Silvia Colombo visita la Biennale d’arte di Luleå per Lykta e si immerge nella malinconica melodia che invade gli spazi di quello che un tempo era il carcere di Luleå.

È un pomeriggio di fine novembre quando finalmente riesco a entrare nel vecchio carcere di Luleå, normalmente chiuso al pubblico. È un pomeriggio di fine novembre, e il buio che avvolge la città è interrotto solamente dal bianco scivoloso della neve a terra e dalle luci rossastre che si intravedono dalle finestre della “Colomba bianca”. Vita Duvan è infatti il nome con cui è conosciuto l’edificio oggi – un soprannome foriero di pace che si è guadagnato da quando la sua funzione originaria venne dismessa nel 1979. Mi avvicino, giro attorno al suo perimetro, come in una danza volta alla ricerca dell’ingresso, spingo il portoncino ed entro. Ricordo un cigolio, come nel più classico dei film, ma non so dire fino a che punto la mia fantasia stia prendendo il volo.

Entro e rimango (s)travolta. Il silenzio e l’oscurità esterni sono ormai alle mie spalle, mentre vengo avvolta da una luce pulsante, alternativamente rossa e bianca, e travolta da una musica forte ma lenta, quasi straziante. Quindi questo è “Il lamento della colomba bianca” (Den Vita Duvans lament)? L’installazione di Maria W Horn, parte della biennale d’arte di Luleå 2020 ed eseguita in collaborazione con la Public Art Agency svedese, parla chiaro. Non nasconde nulla, anzi qui il titolo si fa manifesto dell’opera. E sin dal primo istante è tutta un’esplosione di pensieri, di referenze e di emozioni.


Foto: Thomas Hämén

Vita Duvans lament è un intreccio inestricabile di storia, stimoli visivi e uditivi che scavalca il solo concetto di arte sonora per arrivare a toccare la sensorialità dell’arte programmata e la spazialità architettonica. In altre parole, è una composizione musicale in tre cicli (Omnia citra mortem, Heac est regula recti e Längtans Vita Duva) cantata su base elettronica e accompagnata da variazioni luminose che invadono l’interno dell’ex carcere. Tutto è estremamente contemporaneo e, al tempo stesso, tutto rimanda a un passato remoto. Se la musica, da un lato, rievoca la sacralità dei canti gregoriani e liturgici, l’architettura a corpo centrale con pianta ennagonale – disegnata a metà Ottocento dall’architetto Carl Fredrik Hjelm – si riallaccia alle teorie del panopticon di Jeremy Bentham e, andando ancora più indietro, agli edifici ecclesiastici del Medioevo e Rinascimento.

Le luci e la musica, che invadono lo spazio coi loro contrasti drammatici, fanno da sfondo ma sono al contempo i protagonisti dell’opera. Chi si addentra nella pancia di questo “Lamento della colomba bianca” compie un’esperienza su più livelli temporali. C’è il presente, l’hic et nunc, e il passato. La nostra storia diventa così la storia di uno, dieci, cento detenuti che si sono succeduti in quelle piccole celle e di cui l’artista immagina i monologhi, lasciandoli fuoriuscire da casse che riversano parole a fiumi. Sono sussurri recitati, preghiere forse, domande che la loro mente si poneva. Alle mie orecchie non ancora del tutto abituate a una lingua che non è la mia, le loro parole risultano come suoni quasi indistinti. Colgo alcuni elementi, l’insieme mi sfugge. Ma non importa. Non è questo il punto. Il linguaggio del dolore, della prigionia e della sopravvivenza è universale e arriva dritto al cuore di tutti. Non servono libri, dizionari, interpreti. È sufficiente sapere ascoltare.

Silvia Colombo • 2021-02-09
Silvia Colombo är konsthistoriker, museolog och skribent bosatt i Luleå. Har ett särskilt intresse för tvärvetenskapliga forskning om konst, politik, musei- samt minnesstudier.


Nella pancia della “Colomba Bianca”

Foto: Thomas Hämén

Silvia Colombo visita la Biennale d’arte di Luleå per Lykta e si immerge nella malinconica melodia che invade gli spazi di quello che un tempo era il carcere di Luleå.

È un pomeriggio di fine novembre quando finalmente riesco a entrare nel vecchio carcere di Luleå, normalmente chiuso al pubblico. È un pomeriggio di fine novembre, e il buio che avvolge la città è interrotto solamente dal bianco scivoloso della neve a terra e dalle luci rossastre che si intravedono dalle finestre della “Colomba bianca”. Vita Duvan è infatti il nome con cui è conosciuto l’edificio oggi – un soprannome foriero di pace che si è guadagnato da quando la sua funzione originaria venne dismessa nel 1979. Mi avvicino, giro attorno al suo perimetro, come in una danza volta alla ricerca dell’ingresso, spingo il portoncino ed entro. Ricordo un cigolio, come nel più classico dei film, ma non so dire fino a che punto la mia fantasia stia prendendo il volo.

Entro e rimango (s)travolta. Il silenzio e l’oscurità esterni sono ormai alle mie spalle, mentre vengo avvolta da una luce pulsante, alternativamente rossa e bianca, e travolta da una musica forte ma lenta, quasi straziante. Quindi questo è “Il lamento della colomba bianca” (Den Vita Duvans lament)? L’installazione di Maria W Horn, parte della biennale d’arte di Luleå 2020 ed eseguita in collaborazione con la Public Art Agency svedese, parla chiaro. Non nasconde nulla, anzi qui il titolo si fa manifesto dell’opera. E sin dal primo istante è tutta un’esplosione di pensieri, di referenze e di emozioni.


Foto: Thomas Hämén

Vita Duvans lament è un intreccio inestricabile di storia, stimoli visivi e uditivi che scavalca il solo concetto di arte sonora per arrivare a toccare la sensorialità dell’arte programmata e la spazialità architettonica. In altre parole, è una composizione musicale in tre cicli (Omnia citra mortem, Heac est regula recti e Längtans Vita Duva) cantata su base elettronica e accompagnata da variazioni luminose che invadono l’interno dell’ex carcere. Tutto è estremamente contemporaneo e, al tempo stesso, tutto rimanda a un passato remoto. Se la musica, da un lato, rievoca la sacralità dei canti gregoriani e liturgici, l’architettura a corpo centrale con pianta ennagonale – disegnata a metà Ottocento dall’architetto Carl Fredrik Hjelm – si riallaccia alle teorie del panopticon di Jeremy Bentham e, andando ancora più indietro, agli edifici ecclesiastici del Medioevo e Rinascimento.

Le luci e la musica, che invadono lo spazio coi loro contrasti drammatici, fanno da sfondo ma sono al contempo i protagonisti dell’opera. Chi si addentra nella pancia di questo “Lamento della colomba bianca” compie un’esperienza su più livelli temporali. C’è il presente, l’hic et nunc, e il passato. La nostra storia diventa così la storia di uno, dieci, cento detenuti che si sono succeduti in quelle piccole celle e di cui l’artista immagina i monologhi, lasciandoli fuoriuscire da casse che riversano parole a fiumi. Sono sussurri recitati, preghiere forse, domande che la loro mente si poneva. Alle mie orecchie non ancora del tutto abituate a una lingua che non è la mia, le loro parole risultano come suoni quasi indistinti. Colgo alcuni elementi, l’insieme mi sfugge. Ma non importa. Non è questo il punto. Il linguaggio del dolore, della prigionia e della sopravvivenza è universale e arriva dritto al cuore di tutti. Non servono libri, dizionari, interpreti. È sufficiente sapere ascoltare.

Silvia Colombo • 2021-02-09
Silvia Colombo är konsthistoriker, museolog och skribent bosatt i Luleå. Har ett särskilt intresse för tvärvetenskapliga forskning om konst, politik, musei- samt minnesstudier.