Chi ce lo fa fare a lavorare?

After Work Foto: Fredrik Wenzel (beskuren)

Monica Mazzitelli parla del nuovo film di Erik Gandini in uscita in Svezia oggi, After Work, un documentario che si muove tra gli estremi del lavoro schiavizzato e degli ultraricchi che non hanno mai dovuto alzare un dito, per trovare una risposta alla domanda sulle vere ragioni per cui lavoriamo.

Nel suo precedente documentario, Chirurgo ribelle, Erik Gandini aveva raccontato la scelta di vita di un chirurgo che, demotivato dal fatto di dedicarsi all’80% di questioni amministrative che invece che occuparsi dei suoi pazienti, aveva deciso di lasciare il suo impiego nella sanità svedese. Per trovare nuovamente senso alla sua professione e alla sua vita, aveva mollato tutto e si era trasferito in Etiopia per fondare un rudimentale ospedale, lasciando alle spalle il lusso upperclass svedese. After Work sembra in qualche modo un approfondimento di questa prospettiva: Gandini dà un ulteriore giro di vite proponendo una riflessione provocatoria sul significato del lavoro nella moderna società occidentale. Un pubblico che si aspetti una rigorosa e approfondita analisi globale del mondo del lavoro rimarrà deluso: non è questo l’obiettivo o l’intenzione del regista. Piuttosto, egli vuole presentare storie molto diverse provenienti da paesi classificabili come ricchi – Stati Uniti, Italia, Corea del Sud e Kuwait – mostrando alcuni esempi tanto dalle classi abbienti che da quelle più povere. Al di là delle differenze, esiste tra loro una percezione che vale per tutti: l’85% dei lavoratori non si sente coinvolta emotivamente dal proprio lavoro, o addirittura lo odia. L’equazione lavoro = sopravvivenza economica = coercizione sembra essere valida per la maggior parte dei modelli sociali di impiego. Un’autista statunitense trattata come una schiava da Amazon fa un disperato tentativo di dipingere la sua occupazione come qualcosa dal significato etico più profondo. Con una buona dose di ironia, quando la sua compatriota Elizabeth Anderson (filosofa e storica esperta del ruolo dell’etica del lavoro nella società americana) spiega che i sistemi lavorativi privilegiano il profitto rispetto al benessere dei lavoratori, è però anche costretta a ammettere che l’unica cosa che le piaccia veramente fare, 24 ore al giorno, è lavorare.


After Work Foto: Måns Månsson (beskuren)

La moderna schiavitù esiste anche in Kuwait, dove gran parte della popolazione è costituita da lavoratori migranti che vivono e operano in condizioni di totale coercizione, mentre una larga parte dei cittadini kuwaitiani si reca ogni giorno sul posto di lavoro dove però non ha nessuna occupazione, e passa il tempo seduta alla propria scrivania a guardare film, giocare al computer o altro. Il sistema di ripartizione della ricchezza generata dal petrolio nel Kuwait può essere paragonato a una sorta di reddito di cittadinanza per il quale le persone – in cambio dello stipendio – accettano di simulare un’attività lavorativa meramente recendosi sul posto di lavoro. In alcuni casi, ci sono 20 persone preposte a svolgere l’attività di una sola.

In Corea del Sud, al contrario, sono in molti a passare in ufficio fino a 14 ore al giorno tutti i giorni della settimana, senza ferie. Per il suicidio legato a tematiche lavorative esiste un nome specifico: gwarosa, ovvero morte per eccesso di lavoro. Il paradosso è che in Corea del Sud, a fronte di tutto questo, il Ministro del Lavoro ha il compito paradossale di cercare di convincere le persone a passare più tempo in casa a stare con la famiglia o a coltivare qualche hobby creativo.

Ma se, grazie all’utilizzo massiccio dell’Intelligenza Artificiale, un giorno non ci dovesse essere più possibilità o necessità di un impiego per le generazioni future, e la maggior parte di loro vivesse senza eseguirne neanche uno finto come in Kuwait? Gandini cerca di trovare una risposta nella sua Italia e presenta alcuni esempi. Il primo è il grande gruppo dei NEET (Not in Employment, Education or Training) ovvero persone che, oltre a non lavorare, né studiano né seguono alcun piano di formazione. In Italia, il 27,9% delle persone di età compresa tra i 20 e i 34 anni appartiene a questo gruppo, e può contare di ricevere un giorno un’eredità sostanziale dai propri genitori. Nel frattempo, queste persone vivono del reddito e dei risparmi dei genitori. Questo gruppo è a dir poco sovrarappresentato in Italia, mentre in Svezia conta solo per il 7,6% del totale. Allo stesso modo, in Italia c’è un gruppo di iper-ricchi che, avendo ereditato aziende o cospicue fortune, ha potuto vivere per diverse generazioni senza dover lavorare. È un gruppo che vive nel lusso e può trascorrere il loro tempo come più preferisce.


Erik Gandini Foto: Jens Lasthein (beskuren)

Dunque, se ipotizziamo una società in cui il lavoro è svolto e forse controllato da robot e AI, qual è un ipotizzabile futuro? Che tutti continueranno a andare in ufficio e a far finta di lavorare come in Kuwait, o a guardarsi l’ombelico, o a seguire l’ispirazione del moneto come i ricconi italiani? La risposta si trova, o meglio si nasconde, tra le righe di After Work, che si ispira agli studi e alla critica sulla società del lavoro condotta dal sociologo Roland Paulsen. Paulsen sostiene che “viviamo nell’ideologia del lavoro, dove un insieme di paure, valori e idee sembrano giustificare il motivo per cui continuiamo a lavorare tanto o addirittura di più, indipendentemente da quanto la società sembri diventare automatizzata ma, al contempo, abbiamo anche il potenziale per vivere in modo diverso”, si legge nella presentazione del film. È stato con Roland Paulsen, professore associato di sociologia all’Università di Lund, e con Jyoti Mistry – docente di cinema alla prestigiosa Accademia Valand di Göteborg – che Gandini ha approfondito queste tematiche. Parlando di collaborazioni, vale anche la pena sottolineare l’ottimo lavoro del DoP Fredrik Wenzel, noto per le sue collaborazioni con Ruben Östlund, e l’eccellente montaggio e le musiche firmate da Johan Söderberg e da Christofer Berg.

Forse si potrebbe alzare il tiro e chiedersi: c’è un senso alla nostra esistenza, al di là del restare vivi il più a lungo possibile? Torniamo in Italia dove incontriamo un altro ereditiere, Armando Pizzoni, che possiede un magnifico giardino che cura con lo stesso amore, precisione e dedizione che eserciterebbe un neurochirurgo per rimuovere un tumore al cervello da un giovane paziente. Lo prende come un lavoro, anche se non ne avrebbe reale necessità: dov’è il confine tra ciò che può essere definito un hobby e un lavoro? Qual è la motivazione di Pizzoni?

After Work è un film molto interessante che, pur senza scendere troppo in profondità, stimola riflessioni e discussioni attraverso grande umorismo e splendide immagini.

Monica Mazzitelli • 2023-09-15
Monica Mazzitelli är en italiensk-svensk regissör och författare, samt kultur- och samhällsskribent med fokus på feministiska frågor


Chi ce lo fa fare a lavorare?

After Work Foto: Fredrik Wenzel (beskuren)

Monica Mazzitelli parla del nuovo film di Erik Gandini in uscita in Svezia oggi, After Work, un documentario che si muove tra gli estremi del lavoro schiavizzato e degli ultraricchi che non hanno mai dovuto alzare un dito, per trovare una risposta alla domanda sulle vere ragioni per cui lavoriamo.

Nel suo precedente documentario, Chirurgo ribelle, Erik Gandini aveva raccontato la scelta di vita di un chirurgo che, demotivato dal fatto di dedicarsi all’80% di questioni amministrative che invece che occuparsi dei suoi pazienti, aveva deciso di lasciare il suo impiego nella sanità svedese. Per trovare nuovamente senso alla sua professione e alla sua vita, aveva mollato tutto e si era trasferito in Etiopia per fondare un rudimentale ospedale, lasciando alle spalle il lusso upperclass svedese. After Work sembra in qualche modo un approfondimento di questa prospettiva: Gandini dà un ulteriore giro di vite proponendo una riflessione provocatoria sul significato del lavoro nella moderna società occidentale. Un pubblico che si aspetti una rigorosa e approfondita analisi globale del mondo del lavoro rimarrà deluso: non è questo l’obiettivo o l’intenzione del regista. Piuttosto, egli vuole presentare storie molto diverse provenienti da paesi classificabili come ricchi – Stati Uniti, Italia, Corea del Sud e Kuwait – mostrando alcuni esempi tanto dalle classi abbienti che da quelle più povere. Al di là delle differenze, esiste tra loro una percezione che vale per tutti: l’85% dei lavoratori non si sente coinvolta emotivamente dal proprio lavoro, o addirittura lo odia. L’equazione lavoro = sopravvivenza economica = coercizione sembra essere valida per la maggior parte dei modelli sociali di impiego. Un’autista statunitense trattata come una schiava da Amazon fa un disperato tentativo di dipingere la sua occupazione come qualcosa dal significato etico più profondo. Con una buona dose di ironia, quando la sua compatriota Elizabeth Anderson (filosofa e storica esperta del ruolo dell’etica del lavoro nella società americana) spiega che i sistemi lavorativi privilegiano il profitto rispetto al benessere dei lavoratori, è però anche costretta a ammettere che l’unica cosa che le piaccia veramente fare, 24 ore al giorno, è lavorare.


After Work Foto: Måns Månsson (beskuren)

La moderna schiavitù esiste anche in Kuwait, dove gran parte della popolazione è costituita da lavoratori migranti che vivono e operano in condizioni di totale coercizione, mentre una larga parte dei cittadini kuwaitiani si reca ogni giorno sul posto di lavoro dove però non ha nessuna occupazione, e passa il tempo seduta alla propria scrivania a guardare film, giocare al computer o altro. Il sistema di ripartizione della ricchezza generata dal petrolio nel Kuwait può essere paragonato a una sorta di reddito di cittadinanza per il quale le persone – in cambio dello stipendio – accettano di simulare un’attività lavorativa meramente recendosi sul posto di lavoro. In alcuni casi, ci sono 20 persone preposte a svolgere l’attività di una sola.

In Corea del Sud, al contrario, sono in molti a passare in ufficio fino a 14 ore al giorno tutti i giorni della settimana, senza ferie. Per il suicidio legato a tematiche lavorative esiste un nome specifico: gwarosa, ovvero morte per eccesso di lavoro. Il paradosso è che in Corea del Sud, a fronte di tutto questo, il Ministro del Lavoro ha il compito paradossale di cercare di convincere le persone a passare più tempo in casa a stare con la famiglia o a coltivare qualche hobby creativo.

Ma se, grazie all’utilizzo massiccio dell’Intelligenza Artificiale, un giorno non ci dovesse essere più possibilità o necessità di un impiego per le generazioni future, e la maggior parte di loro vivesse senza eseguirne neanche uno finto come in Kuwait? Gandini cerca di trovare una risposta nella sua Italia e presenta alcuni esempi. Il primo è il grande gruppo dei NEET (Not in Employment, Education or Training) ovvero persone che, oltre a non lavorare, né studiano né seguono alcun piano di formazione. In Italia, il 27,9% delle persone di età compresa tra i 20 e i 34 anni appartiene a questo gruppo, e può contare di ricevere un giorno un’eredità sostanziale dai propri genitori. Nel frattempo, queste persone vivono del reddito e dei risparmi dei genitori. Questo gruppo è a dir poco sovrarappresentato in Italia, mentre in Svezia conta solo per il 7,6% del totale. Allo stesso modo, in Italia c’è un gruppo di iper-ricchi che, avendo ereditato aziende o cospicue fortune, ha potuto vivere per diverse generazioni senza dover lavorare. È un gruppo che vive nel lusso e può trascorrere il loro tempo come più preferisce.


Erik Gandini Foto: Jens Lasthein (beskuren)

Dunque, se ipotizziamo una società in cui il lavoro è svolto e forse controllato da robot e AI, qual è un ipotizzabile futuro? Che tutti continueranno a andare in ufficio e a far finta di lavorare come in Kuwait, o a guardarsi l’ombelico, o a seguire l’ispirazione del moneto come i ricconi italiani? La risposta si trova, o meglio si nasconde, tra le righe di After Work, che si ispira agli studi e alla critica sulla società del lavoro condotta dal sociologo Roland Paulsen. Paulsen sostiene che “viviamo nell’ideologia del lavoro, dove un insieme di paure, valori e idee sembrano giustificare il motivo per cui continuiamo a lavorare tanto o addirittura di più, indipendentemente da quanto la società sembri diventare automatizzata ma, al contempo, abbiamo anche il potenziale per vivere in modo diverso”, si legge nella presentazione del film. È stato con Roland Paulsen, professore associato di sociologia all’Università di Lund, e con Jyoti Mistry – docente di cinema alla prestigiosa Accademia Valand di Göteborg – che Gandini ha approfondito queste tematiche. Parlando di collaborazioni, vale anche la pena sottolineare l’ottimo lavoro del DoP Fredrik Wenzel, noto per le sue collaborazioni con Ruben Östlund, e l’eccellente montaggio e le musiche firmate da Johan Söderberg e da Christofer Berg.

Forse si potrebbe alzare il tiro e chiedersi: c’è un senso alla nostra esistenza, al di là del restare vivi il più a lungo possibile? Torniamo in Italia dove incontriamo un altro ereditiere, Armando Pizzoni, che possiede un magnifico giardino che cura con lo stesso amore, precisione e dedizione che eserciterebbe un neurochirurgo per rimuovere un tumore al cervello da un giovane paziente. Lo prende come un lavoro, anche se non ne avrebbe reale necessità: dov’è il confine tra ciò che può essere definito un hobby e un lavoro? Qual è la motivazione di Pizzoni?

After Work è un film molto interessante che, pur senza scendere troppo in profondità, stimola riflessioni e discussioni attraverso grande umorismo e splendide immagini.

Monica Mazzitelli • 2023-09-15
Monica Mazzitelli är en italiensk-svensk regissör och författare, samt kultur- och samhällsskribent med fokus på feministiska frågor